“A Betlemme, come ovunque nel mondo, Gesù ha il volto di chi soffre”. L’esperienza di Nicoletta insieme alle anziane di Betlemme.

Giacomo Pizzi20 Gennaio 2014

Un racconto fresco, coinvolgente, che racconta le difficoltà ma anche le gioie vissute in tre settimane di vita alla casa di accoglienza per anziani di Betlemme. Queste le parole di Nicoletta, volontaria per ATS pro Terra Sancta, al termine della sua esperienza:

“A Natale non ci sarò, indovina dove vado?”. “Dove ?”, chiede mio nipote. “Vado dov’è nato Gesù, a Betlemme, come volontaria in una casa di accoglienza (di seguito semplicemente: “Casa”) per donne in difficoltà, perché sono anziane –come la nonna – o perché hanno dei problemi psichici o fisici”. “Dov’è Betlemme ?” “In Palestina”, rispondo. “E’ vicina a Gerusalemme da dove mi hai portato la maglietta con i cammelli ?” chiede ancora mio nipote. “Sì è vicina, anche se però c’è un lungo muro che le rende in un certo senso molto lontane…”.  Le domande si susseguono incessanti ma è difficile soddisfare la curiosità dei bambini sulle vicende dei grandi che anche noi spesso non capiamo bene.

Quando arrivo alla Casa, oltrepassato il check-point,  è già buio, mi colpiscono le luci di una grande stella cometa posta sopra la facciata della chiesa. Mai una luminaria a forma di stella cometa mi è apparsa così ben collocata di  questa: Gesù è nato e rinasce a Betlemme, il 25 dicembre, per portare un messaggio di Amore, Pace, Speranza e Salvezza. A Betlemme, come ovunque nel mondo, Gesù ha il volto di chi soffre, di chi è solo, di chi è povero, di chi è abbandonato, proprio come tante donne ospitate nella Casa.

Quando entro nel corridoio vedo delle donne, più o meno anziane, sedute su poltrone che dormicchiano o che guardano la televisione, tante con la propria copertina di lana, chi sulle spalle chi sulle gambe. Al mio ingresso tutti gli occhi si posano su di me, io non posso far altro che sorridere e fare ciao con la mano… penso che sia un disastro non conoscere l’arabo! Dal giorno seguente, faccio di tutto per cercare di rendermi utile, pur con la dovuta cautela perché ritengo che il personale non deve essere in alcun modo “spogliato” delle proprie mansioni all’arrivo dei volontari. Cerco di affiancarmi, di conoscere e di capire. Tra di loro pare non esserci un grande dialogo, non chiacchierano come tutte le donne, quasi che non ci fosse più niente da raccontare. Non mancano però gesti di solidarietà ed aiuto reciproco: chi è sulla sedia a rotelle viene trasportata da un locale all’altro da chi è più in forma così come la donna cieca viene sempre presa per mano da qualche compagna. Lei questo lo sa perché, a tavola, una volta finito di mangiare, non sempre aspetta che qualcuna la “prelevi” per passare nel salone ma si alza e c’è chi prontamente si avvicina per aiutarla.

Giorno dopo giorno, ognuna delle donne della Casa si rivela fonte inesauribile di sorprese. Le più anziane mi colpiscono per la loro semplicità ed affettuosità: ricambiano una piccolissima cortesia, come l’essere sorrette al braccio per spostarsi dal refettorio alle poltrone del corridoio, con una gratitudine infinita. Qualcuna ha con me un atteggiamento un po’ materno, oserei dire protettivo, che colpisce direttamente al cuore. Per il poco che riesco ad offrire, ho una ricompensa fatta di dolci sorrisi, amorevoli sguardi, teneri abbracci. Con le donne più giovani, con le quali magari riesco a scambiare qualche parola in inglese o in francese, mi sento in qualche modo sorella e amica. Vero è, tuttavia, che talora mi pare ci sia qualcosa di “scollegato” dalla realtà nei loro comportamenti e la comunicazione è difficoltosa. Ve ne è una, che imbocco a colazione e a pranzo, che vive invece una realtà tutta sua: è sempre legata ad una sedia per  asserite ragioni di sicurezza, altrimenti andrebbe in giro ovunque, acchiappando qualsiasi cosa nelle stanze delle compagne.

Ve ne era anche un’altra che viveva in un mondo tutto suo, sempre allettata e da imboccare: Lidia, di cui vorrei dare memoria per il calvario che ha passato prima di morire. La morte non è vissuta come da noi, entra a far parte della quotidianità perché in Palestina non tutti possono accedere alle cure sanitarie e si deve avere un permesso anche per poter andare in un ospedale a Gerusalemme, oltre il muro appunto. Non è passato giorno senza che sentissi parlare di muro dentro e fuori la Casa. Non è passato giorno senza che lo vedessi in fondo alla via che percorrevo ogni giorno per andare alla chiesa della Natività. Non avrei mai immaginato cosa significhi vivere in una Betlemme racchiusa non da belle mura, come quelle della Città Vecchia di Gerusalemme, ma da un muro di cemento armato alto 8 metri, con filo spinato, torrette di guardia, videocamere e quant’altro. Cito il muro perché sia da monito, nella mia vita, contro ogni divisione; l’averlo “vissuto”, in qualche modo, mi permette di dare a mio nipote (e forse non solo a lui) qualche risposta in più, contro ogni forma di separazione.

A fronte di un’esperienza di volontariato così forte non posso che ringraziare ATS pro Terra Santa per l’opportunità che mi ha offerto e che offre a tutti i volontari in Terra Santa.  Nel cuore avrò per sempre il ricordo delle donne della Casa, di chi si dedica ad esse anima e corpo e di tutti i palestinesi che ho conosciuto, la cui pazienza e mitezza mi sono di esempio.