Donne archè

L’Arche di Betlemme e la gioia contagiosa di Maryam

Jacopo Battistini15 Dicembre 2023

Entro per la prima volta all’Arche di Betlemme quasi per sbaglio, ho incontrato un’amica per strada andando verso la Basilica della Natività che mi ha invitato a passare la mattina e il pranzo lì. Decido di andare con lei. In un attimo mi ritrovo in una stanza rumorosa piena di prodotti di lana accumulati in ogni angolo. Mi si presenta R., la responsabile della struttura, contenta di vedere un nuovo volenteroso aiutante. Da dietro una porta viene una musica allegra e si sentono delle voci cantare in coro. La porta si apre e vengo messo seduto a un tavolo a lavorare una palla di lana impregnata di sapone e olio. I ragazzi intorno a me non parlano inglese, ma mi accolgono a gesti e risate. In particolare, una di loro continua a parlarmi in arabo e a ridere fragorosamente davanti ai miei sguardi confusi. Con il mio arabo stentato riesco a capire che si chiama Maryam e dopo poche ore sento di essere diventato suo “amico”, in qualche modo misterioso. Maryam è l’anima della festa e lavorare con lei fa passare in fretta le ore che ci separano dal pranzo.

A pranzo chiedo a R. di raccontarmi meglio la storia dell’Arche e in particolare la storia di Maryam. A Betlemme la società insegna che i ragazzi con disabilità e sindrome di Down sono pericolosi, che possono farti del male e così molti vengono cacciati di casa. Vengono considerati una vergogna e uno stigma per la famiglia. A volte capita di conoscere famiglie per anni per poi venire a scoprire che, in casa, tengono nascosto un figlio con disabilità a cui non permettono di uscire e di cui non parlano mai. Questa è la condizione degli ultimi a Betlemme. L’Arche cerca di dare loro una dignità facendoli lavorare come camerieri nella loro piccola Guest House e insegnandoli a lavorare la lana di scarto dei pastori di Betlemme, da cui ricavano oggetti di ogni sorta che rivendono a turisti e benefattori da tutto il mondo.

R. continua raccontandomi anche la storia di Maryam. Ha una forma di disabilità mentale e suo padre non ha mai accettato questa cosa. Spesso arriva all’Arche con segni di bruciatura di sigarette sul corpo che fanno intuire una violenza domestica fisica, oltre che psicologica. Mi spiega che l’unica cosa che possono fare è cercare di far ragionare il padre di Maryam perché denunciare il fatto alle autorità spingerebbe il padre a non lasciare più uscire di casa Maryam, e vista la situazione lei ha bisogno di stare in un luogo che la faccia sentire non solo accolta, ma anche utile e amata. È commovente e inspiegabile constatare che nonostante la sua condizione Maryam riesca a farti sentire accolto e amato nel giro di poche ore.

R. continua: “È molto più quello che fanno loro per me di quello che io faccio per loro. Il loro cuore è puro, ogni tanto mi capita di essere triste o di avere qualche brutto pensiero, ma mi basta stare con loro e in poco tempo dimentico i miei problemi e mi sento voluta bene, accolta. Non hanno bisogno di fare niente per farmi sentire meglio, solo di essere loro stessi.”

Dopo il Covid e in questa spirale di odio è sempre più difficile per l’Arche continuare a sopravvivere e a garantire a questi ragazzi un luogo sicuro e una occupazione dignitosa. L’assenza di turisti ha reso difficile la vendita dei loro prodotti i cui guadagni coprono una buona parte delle spese che l’Arche sostiene per questi ragazzi. Pro Terra Sancta cerca di sostenere l’Archè rivendendone i prodotti nel suo Bazar e costruendo uno shop online da cui poter vendere i suoi prodotti in tutto il mondo, cercando di compensare la mancanza di turisti di quest’anno. E, soprattutto, cercando di tenere vivo questo luogo dove, incredibilmente, quello ricevi è molto di più di quello che dai.