Terra Santa: l’altra faccia della guerra

Andrea Avveduto26 Gennaio 2024

 “Noi abbiamo sempre lavorato per mantenere la nostra famiglia e – credimi – essere costretti oggi a chiedere aiuto è doloroso. Facciamo fatica a vivere”. Il marito di Linda lavorava nel turismo. Oggi è a casa, e dalla vergogna non vuole nemmeno farsi vedere mentre parliamo con sua moglie. Linda e Michel vivono con i due figli a Betlemme, in un quartiere dove le incursioni militari sono frequenti, specialmente di notte. “Il Covid era stato un duro colpo per noi, ma oggi la situazione è molto più tragica: non vediamo una via di uscita”. George, il figlio sedicenne che studia in una scuola cattolica, ha già le idee molto chiare: “Se la situazione non cambia, lascio il paese”. Mentre ascolta le sue parole cariche di rabbia e tristezza, Linda si commuove e si asciuga le lacrime con una kefiah colorata. “Tanti giovani come mio figlio non hanno più speranza. E sarà difficile ricominciare, quando questa guerra sarà finita”. George si alza e dalla finestra guarda la basilica della Natività. E’ stato battezzato in quel luogo. “Noi cristiani sentiamo il compito di custodire il luogo dove è nato Gesù, ed è un privilegio viverci accanto”. La sua voce è rotta dall’emozione. “Se anche dovessi partire, spero davvero di ritornare”.

La grotta della natività quasi deserta

Betlemme vive da mesi in condizioni disperate. Gli abitanti impegnati nel turismo sono circa 25.000: di questi oggi non lavora quasi nessuno. Ma non è l’unico problema: anche chi si spostava per andare a lavorare in Israele, circa 17.000 persone, oggi è a casa perché dal 7 ottobre i checkpoint sono chiusi. E non è tutto, perché Israele oggi si rifiuta di restituire all’Autorità Palestinese il denaro delle tasse, come previsto dagli accordi di Oslo. La città di Gesù è il fantasma di sè stessa: irriconoscibile nella sua piazza così vuota, mentre i colpi di clacson dei tassisti cercano inutilmente nuovi clienti. Le serrande dei negozi di souvernirs sono abbassate, per strada non si vedono nemmeno i bambini in uniforme tornare dalla scuola. Anche il sistema educativo sta affrontando una crisi senza precedenti. Lo sa bene Cristine, vedova, che ha riposto nelle sue figlie tutte le sue speranze. “Le scuole aprono un giorno sì e uno no e il governo non ha i soldi per pagare gli insegnanti”. Lina e Danielle frequentano la scuola statale, ma da ottobre non vanno più con regolarità. “le rette degli istituti privati sono troppo alte: non riuscirei a mandarle senza aiuti”. Così le figlie frequentano a singhiozzo, da sei mesi. Cristine ha perso il marito di Covid qualche anno fa, e ora è da sola a mandare avanti la famiglia. Si è messa a cucire e a fare qualche lavoretto, ma senza grossi risultati. “Non ci sono clienti, l’economia si è fermata di colpo. Non voglio vivere di carità, ma non ho alternative: il 7 ottobre siamo morti tutti”. Al telefono prova a chiamare suo fratello Anton, che è di Gaza. Non squilla. “Può succedere, la corrente va e viene, ma ogni volta che non risponde ho paura sia successo qualcosa. Lui è voluto rimanere lì, noi invece siamo riusciti a fuggire. Quando riusciamo a parlarci, mi racconta dell’incubo che stanno passando”.

La famiglia di Cristine

Gaza vive in condizioni inimmaginabili. I racconti che si sentono in Palestina hanno il sapore di una situazione senza via di uscita. “Molte malattie si stanno diffondendo perché non possono mangiare cibo pulito e tutto è sporco. I bambini hanno i pidocchi a causa della sporcizia e si stanno diffondendo molte malattie della pelle”. Elham, di cui abbiamo già raccontanto, conosce bene le condizioni della Striscia. “Per fare un paragone, nel 2002, quando c’era stato l’assedio della Natività a Betlemme, c’erano persone che si erano incaricate di ospitare persone sfollate nelle loro case. Provvedevano a tutto, procuravano vestiti, cibo, prodotti per l’igiene personale. Provate ad immaginare cosa vuol dire ora la situazione a Gaza in queste condizioni: non hanno neanche il minimo indispensabile per vivere”.Elham passa le giornate al telefono, prova a capire che possibilità ci sono per inviare gli aiuti. “Ho spedito circa 700 vestiti in Giordania e sono riusciti a entrare a Gaza, ma è stato molto difficile ed è costato molto di più rispetto a quanto sarebbe costato spedirli da qui a Gaza direttamente”. C’è ancora del cibo, ma i prezzi sono triplicati.

A Gerusalemme la situazione è diversa: i missili non cadono più e si respira un’aria di precaria serenità. La Città Vecchia è deserta, i pellegrini non affollano più i suq tra il Santo Sepolcro e la spianata delle Moschee, la vita riprende. Tanti però hanno il cuore affranto, e gli occhi di padre Gabriel Romanelli, il parroco di Gaza, sono sempre puntati al di là del muro: “In parrocchia abbiamo perso alcuni dei nostri fedeli. I nostri cristiani sono persone eccezionali, hanno una fede incredibile e pregano ogni giorno perché tutto finisca. Si organizzano per aiutare gli altri anche grazie ai contributi che abbiamo ricevuto”. Padre Romanelli è costretto da alcuni mesi a rimanere nella Città Santa senza poter tornare nella sua parrocchia nella Striscia, e nonostante tutto non si stanca di aiutare per come può. Costruisce relazioni, dona fiducia. Scommette sul bene che abita il cuore di ognuno. “Migliaia di persone hanno bisogno di cure urgenti, altri stanno morendo di fame. Chiedo a tutta la comunità internazionale la fine della guerra, se non con la pace almeno con un “Cessate il fuoco” permanente. La speranza che ho nel cuore è di poter tornare al più presto e di far giungere gli aiuti con la massima rapidità ed efficienza”.