Intervista a un frate del Cairo, padre Vincenzo Ianniello, francescano della Custodia di Terra Santa e direttore del Centro di Studi Orientali Cristiani del Cairo.

Giacomo Pizzi17 Febbraio 2011

EGITTO/ La rivolta vista dal convento dove i musulmani studiano san FrancescoProve di dialogo nel Cairo assediato da esercito e manifestanti. Una biblioteca gestita dai frati francescani dove i professori delle università religiose islamiche mandano i loro studenti per preparare la tesi su figure di santi come San Francesco e San Bonaventura. A raccontare che cosa sta avvenendo nel convento del Musky, nella grande parrocchia latina della capitale egiziana, è padre Vincenzo Ianniello, francescano della Custodia di Terra Santa e direttore del Centro di Studi Orientali Cristiani del Cairo. A mezz’ora a piedi da piazza Tahrir, se si escludono gli spari contro i saccheggiatori che si sentono risuonare nella notte, il convento di Musky non è stato toccato direttamente dagli scontri e dalle manifestazioni. Ma è comunque un osservatorio privilegiato per comprendere, con la calma tipica dei frati francescani, che cosa avverrà nell’Egitto di domani.

Padre Ianniello, perché alcuni cristiani sono scesi in piazza a protestare, mentre altri hanno preferito non farlo?

Alcuni cristiani, inclusi preti e suore, hanno preso parte alle proteste, ma lo hanno fatto in un modo poco evidente. È vero che i Fratelli musulmani hanno fatto una dichiarazione in cui si dice che «cristiani e musulmani sono tutti uguali». Ma questa è una formula che si ripete ogni volta che si vuole ottenere qualcosa. Dicono che «il nostro Dio è uguale al vostro», «abbiamo tutti lo stesso Dio» e altre cose del genere. Però poi quando non c’è più bisogno dell’appoggio dei cristiani, si vedono le differenze e la minoranza praticamente non conta. Quando fa loro comodo siamo tutti uguali, e poi smettiamo di esserlo. È di questo che hanno una certa paura i cristiani. Forse non in tutti c’è lo stesso timore, però c’è molta prudenza, perché è difficile decifrare quello che accadrà dopo, e se si sbaglia a fare dei passi se ne pagheranno le conseguenze.

Come sarà l’Egitto che verrà?

Non dobbiamo farci illusioni, è troppo presto per dare delle risposte. Però è vero che ogni volta che passo davanti all’università vedo dei giovani sia musulmani sia cristiani (si riconoscono da come vestono le ragazze), che vanno in giro e parlano insieme. Significa che nelle nuove generazioni una certa apertura al dialogo c’è. Questo avviene soprattutto negli ambienti più colti, ma non ovunque è così: se uno viene da un’università islamica la pensa esattamente allo stesso modo? I ragazzi che frequentano la nostra biblioteca, dove abbiamo 80 mila volumi sul cristianesimo occidentale, sono però sia musulmani sia cristiani. E spesso vediamo delle ragazze completamente velate, che stanno insieme alle cristiane senza nessun problema. È l’ambiente a essere determinante, e in Egitto non tutti gli ambienti sono uguali. Quando il 7 gennaio si è celebrato il Natale copto, siamo stati a salutare gli ortodossi per fare loro gli auguri. Ci hanno detto: «State tranquilli perché qui abbiamo sempre avuto dei buoni rapporti con i nostri vicini musulmani e quindi non temiamo il rischio di attentati».

Ma in questi giorni di proteste, per i cristiani il clima è stato più o meno libero?

In questi giorni c’è un clima migliore. Nei momenti di rivolta, nessuno ha attaccato le chiese, anche se la polizia era letteralmente scomparsa. Potevano fare quello che volevano contro il nostro monastero, ma non è successo assolutamente niente. Certo, a Capodanno c’è stato il terribile attentato di Alessandria. E la versione del governo era che i terroristi venivano da fuori del Paese. Ma la gente fin dal primo giorno diceva: «Questo attentato è stato organizzato in Egitto». Perché lo dicessero, non lo so. Ora però da un’inchiesta emerge che sembrerebbe sia stato progettato dall’ex ministro degli Interni egiziano. Per non parlare del fatto che nei giorni scorsi i cristiani hanno pregato in piazza Tahrir, mentre i musulmani stavano a guardarli. Se fosse avvenuto sotto Mubarak, sarebbe scoppiato il finimondo.

Qual è il significato della presenza dei francescani al Cairo?

In Egitto, oltre ai padri di Terra Santa cui appartengo, ci sono anche i francescani della Provincia egiziana, attivi nel campo dell’educazione. Nelle nostre scuole vengono studenti musulmani e cristiani, senza distinzioni, e grazie a questo si instaurano numerosi rapporti positivi che restano nel tempo. Noi non siamo qui per predicare, ma come ci ha insegnato San Francesco, per essere una presenza pacifica in mezzo alla gente.

Ma perché le studentesse musulmane vengono nella biblioteca dei frati?

Alcuni professori, anche di università islamiche, propongono ai giovani di fare delle tesi sui santi cristiani, in particolare su San Francesco e San Bonaventura. Tutto è nato dal fatto che nel nostro convento c’è un padre siriano cui molti docenti islamici si rivolgono per chiedere delle traduzioni dal latino all’arabo. Dall’incontro con lui, in molti è nato il desiderio di conoscere la nostra esperienza. Un professore in particolare si è chiesto: «Ma perché ci chiediamo sempre che cosa ne pensiamo noi dell’Occidente cristiano, e non ci chiediamo che cosa ne pensa quest’ultimo di noi?». È un po’ come Mosè che, dopo avere visto il roveto ardente, ha avvertito il desiderio di scoprire che cos’era. Questi rapporti tra noi e i musulmani vengono da un’esperienza che probabilmente non si spiega, ma da cui nasce il desiderio di relazioni migliori tra islamici e cristiani.

Da un punto di vista sociale invece, com’è la situazione in Egitto?

La gente qui conta quando comanda su qualcuno, è una mentalità radicata e non mi risulta che il regime abbia fatto qualcosa per correggerla. Anche perché il regime non si è mai interessato veramente del popolo. L’unica cosa che gli interessava erano le persone che riuscivano ad accumulare capitali. Quando quattro anni fa sono tornato in Egitto, dopo esserci vissuto a lungo negli anni ‘90, la prima cosa che ho sentito dire è stata: «L’Egitto vive su una polveriera, prima o poi scoppia». E questa è stata l’occasione.

Perché dice che il governo non si è mai interessato del popolo?

Venti anni fa la situazione economica era difficile, ma sostanzialmente le persone avevano tutte da mangiare. Oggi invece è sempre più frequente incontrare delle persone che non hanno nulla di cui cibarsi. Per esempio, in molti mi raccontano che restano a guardare la tv fino alle 3 di notte, per alzarsi il più tardi possibile e saltare un pasto risparmiando qualche spicciolo. E spesso arrivano nel nostro convento delle ragazze che ci chiedono di poter mangiare un panino dicendo: «Ho dimenticato da quanto tempo non ne vedo uno». Nella maggior parte dei quartieri del Cairo la gente vive così.

Ma questa povertà nasce anche da una certa mentalità?

Sì, in Egitto non appena una persona ha qualcuno sotto di sé, si sente subito padrona della sua vita. Sono diversi gli episodi che lo documentano. Un operaio che diventa piccolo imprenditore, per esempio, smette subito di lavorare e si limita a guardare i dipendenti che faticano. Per non parlare della corruzione nella vita pubblica. A Sharm el Sheik esiste una base militare con navi della Marina italiana e americana. Nel campo Usa c’era bisogno di alcune gru e le hanno fatte arrivare al porto di Alessandria d’Egitto: secondo gli accordi internazionali, queste gru non erano soggette a tasse doganali. L’ex direttore del porto si è impuntato e ha chiesto a tutti i costi il pagamento di una somma, e alla fine la marina Usa si è dovuta piegare. E quando è stata costruita la metropolitana del Cairo, la società francese ha avanzato dei materiali che intendeva lasciare nel Paese. Le autorità in cambio hanno chiesto il pagamento di una tassa, e così quelle sostanze sono finite tutte nel mar Mediterraneo.

Fonte: www.ilsussidiario.net

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