La conservazione dei beni culturali in Palestina

Giovanni Caccialanza12 Luglio 2022

“Monete romane! Solo 50 shekel!”. Risponde così Mahmoud (nome di fantasia) quando gli chiediamo che cosa siano i pezzi di bronzo, vagamente squadrati, che ci porge. Siamo a Sebastia, nel Nord della Palestina, in mezzo alla piazza centrale del paese. In effetti, sulla faccia irregolarmente coniata e mezzo consumata, si scorge, a fatica, quello che sembra un profilo di un comandante o di un imperatore romano. Sono dei falsi? Anche se lo fossero, sarebbe comunque singolare che si possa affermare così, senza problemi, di stare vendendo delle monete di duemila anni fa. Pezzi da museo, o per lo meno beni culturali da preservare con attenzione. Non certo adatti per essere messi in bella mostra su di una bancarella e venduti al primo offerente.

Reperti storici di Sebastia

Mahmoud è un contadino sulla sessantina. “Le mie figlie sono all’Università, e ho bisogno di qualche soldo in più per pagare i loro studi”. Percorriamo con lui qualche tratto di strada sterrata, che dalla piazza di Sebastia si immette negli oliveti scoscesi e bruciati dal sole, in mezzo alle rovine di un foro romano e di un teatro ellenistico. Mahmoud ci mostra i suoi alberi: pruni, olivi, qualche pianta di pesche… “Coltivare la terra non mi basta. Qui si può trovare qualche moneta antica e qualche oggetto in terracotta. Di solito piacciono ai turisti!”. Poi aggiunge, con una punta d’insistenza: “Comprate le monete! Sono solo 50 shekel!”.

Ma è possibile che i beni culturali, in una terra così ricca di storia e di tradizione, siano abbandonati in questo modo? Che non ci sia tutela di nessun tipo? Soprattutto, è possibile che a Sebastia, sul sito di una delle più fiorenti e meglio conservate colonie greco-romane in Palestina, non ci sia consapevolezza del valore dei reperti storici?

L’ignoranza del patrimonio artistico palestinese

Abbiamo posto queste domande a Carla Benelli, responsabile dei progetti di conservazione di Pro Terra Sancta, un’esperienza più che ventennale nel restauro dei beni culturali in Palestina, un sorriso limpido e gentile sotto i capelli argentati. “Uno tra i problemi fondamentali”, ci dice “è proprio quello dell’ignoranza del valore del patrimonio artistico e culturale palestinese. Recentemente, una dj è stata arrestata perché suonava musica techno nel sito – sacro – di Nabi Musa, presso Gerico. Il problema è che questa dj palestinese non aveva minimamente idea di dove stesse suonando”.

Poi prosegue: “E questa ignoranza è da imputare innanzitutto alle istituzioni straniere, europee per prime. Sempre per restare sul caso di Nabi Musa: qui sono stati impiegati fondi europei per costruire un albergo. Ma Nabi Musa è il sito in cui i musulmani venerano la sepoltura di Mosé! Insomma, è come se noi, in Italia, costruissimo con fondi pubblici un albergo nel Santuario del Divino Amore a Roma… Secondo te è possibile?”. È chiaro, insomma, che dove non si promuove conoscenza, poi emerge il degrado e il mancato rispetto per i siti archeologici.

Il coinvolgimento della comunità locale nella conservazione

Ecco perché “noi di Pro Terra Sancta coinvolgiamo negli scavi le comunità locali, permettendo loro di conoscere il proprio patrimonio e condividere poi le conoscenze acquisite. Le popolazioni hanno il diritto, in quanto comunità, di interessarsi e di proteggere il proprio patrimonio culturale. È qui che sono necessarie formazione ed educazione. È qualcosa, tra l’altro, che è scritto anche nella Convenzione FARO siglata dal Consiglio d’Europa nel 2005 ed entrata in vigore nel 2011”.

E questa formazione destinata ai singoli è tanto più necessaria in quanto non c’è un quadro normativo chiaro che stabilisca la tutela dei beni culturali. E per vederlo non ci si deve per forza smarrire nel verde semi-agricolo del Nord dei Territori Palestinesi. È sufficiente addentrarsi qualche passo nella Città Vecchia di Gerusalemme (!) e si vedranno fare bella mostra di sé intere vetrine contenenti anfore, terrecotte, statuine, monete, bronzi… tutti provenienti da un qualche anfratto del ricchissimo e mai banale percorso storico attraversato dalla Città Santa. “Non c’è qualcuno che viene da fuori, internazionale, a proteggere i siti, ma è la comunità locale che deve occuparsene. E questo richiede, appunto, innanzitutto formazione”.  

Certo, sarebbe auspicabile che la legislazione sui beni culturali, nominalmente esistente entro lo stato di Israele, fosse effettivamente rispettata. Si andrebbe verso una forma di tutela reale del patrimonio storico ed artistico presente in Terra Santa. Ma le cose non sembrano andare in questa direzione: in un contesto com’è quello israelo-palestinese, il conflitto impedisce un serio sforzo per l’intesa, presupposto necessario per applicare le leggi a protezione dei siti culturalmente rilevanti.

Il commercio dei beni culturali

Lo Stato Ebraico di Israele, sordo peraltro alle risoluzioni ONU che ne condannano la rapacità sui siti archeologici, ha concesso nel 1978 una sanatoria che rendeva perfettamente legale il possesso di qualunque bene culturale ottenuto prima di quella data, indipendentemente dalle metodologie d’acquisto. Da allora, non si è mai rivista la normativa e addirittura Israele non compare tra i firmatari di una convenzione UNESCO del 1970 che limita il commercio dei beni culturali.

Insomma, entro i confini israeliani, fino a non molti anni fa, era perfettamente possibile scambiare, comprare, regalare oggetti storici di qualunque provenienza. E oggi non è in atto alcuna campagna strutturale e istituzionale di recupero di tali beni in vista di una loro preservazione.

Ecco, allora, perché è importantissimo il sostegno garantito ai nostri progetti di conservazione. Grazie alle donazioni che riceviamo per lavorare nei siti archeologici della Terra Santa possiamo promuovere consapevolezza storica nelle comunità locali. E questo è alla base dell’apprezzamento per la propria terra, e, in ultimo, del tentativo di renderla più bella, più florida e più pacifica, progettando lì il proprio futuro.

“Le mie figlie studiano entrambe a Ramallah”, ci aveva detto Mahmoud. “Spero che poi possano trovare un lavoro in Inghilterra, comunque in Europa”. Chissà, se qualcuno lo raccontasse, quel padre comincerebbe forse a desiderare per le proprie figlie un futuro in Palestina. Comincerebbe, forse, a maturare la lenta sapienza delle piante, che crescono dalle radici e, salde sul loro territorio, riescono così a godersi il sole di ogni giorno. E a crescere sotto questo.