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Aleppo: perdono e carità per ricostruire la pace

Giacomo Pizzi15 Aprile 2019

Aleppo. Il generale inverno sferra gli ultimi colpi a una città che ha un disperato bisogno di primavera. Anche quest’anno in tanti sono morti per il freddo. Le code alle stazioni di benzina non promettono niente di buono, e confermano la triste intuizione con cui siamo arrivati da Damasco. Un’altra città in ginocchio, senza gasolio, senza elettricità. Di notte i rumori di guerra si sono fermati, ma a tratti le bombe tengono ancora svegli gli aleppini nel quartiere di Azizieh.

La parrocchia san Francesco di padre Ibrahim continua ad aiutare tutti, e nei giorni passati in convento i volontari si alternano senza sosta in questa miracolosa macchina della carità. Distribuiscono taniche di olio, cibo, pannolini per i bambini. A chiunque, nello spirito che anima da sempre i francescani.

“Siamo ormai ridotti al piccolo resto”. Mons. Abou Khazen ci accoglie sulla soglia della sua residenza, accanto al luogo dove una suora venne letteralmente disintegrata da un missile. “Sua mamma aspetta ancora il suo ritorno, perché il suo corpo non è stato mai trovato”, ci racconta. La sete di giustizia di questo popolo è grande. “Ma la riconciliazione, e cioè il perdono, è ancora più grande della giustizia”. Il vicario apostolico traccia – con queste parole – la via della pace. Anche se è umanamente difficile pensare al perdono, quando si cammina per chilometri di macerie. Non solo materiali, ma anche umane.

Persone che hanno subito traumi, violenze, che hanno perso familiari, amici. Al Collegio Terre Sainte, dove abbiamo recentemente avviato un progetto per accogliere persone con problemi psicologici, incontriamo alcuni figli della guerra. “Mia figlia ha sofferto molto a causa della guerra. E’ diventata violenta e aggressiva”. Maryam si commuove, quando ripensa a questi anni difficili. Poi la bambina, appena è cresciuta, “ha cominciato a fare domande sulla guerra e sulla situazione, che per lei era insostenibile”.

“Sento che mia figlia non ha possibilità”. A parlare è la mamma di un’altra bambina con gravi ritardi mentali. “Al mio villaggio ero disperata: nessuno voleva giocare con lei. Poi abbiamo trovato questo posto, con altri bambini come lei: ogni giorno la aiutano a sviluppare le sue capacità e i talenti che Dio le ha dato”. Sorride, asciugandosi le lacrime.

A volte è sufficiente guardare i loro disegni, o solo vederli disegnare, per capire: “osservavo come schiacciavano forte le loro matite, per cacciare fuori i demoni che avevano dentro”, ci dice la psicologa incaricata di seguire i ragazzi. Alcuni non si fanno vedere: hanno paura di noi, paura dell’altro, forse ricordando anni di abusi e violenze. “Fortunatamente abbiamo tante storie di successo, di bambini che stanno lentamente superando i traumi”, ci racconta padre Firas Lutfi, responsabile del centro e del progetto finanziato da ATS pro Terra Sancta, mentre in macchina ci accompagna verso i quartieri più poveri della città. “Ci vorranno anni, ma non possiamo, non dobbiamo fermarci”.

Durante la visita a un quartiere della periferia, fissiamo il volto di un ragazzo rovinato dalle piaghe. In ciabatte, con un maglione verde polveroso e dei pantaloni strappati, prova a giocare con altri ragazzi vicini a lui. Nessuno vuole starci vicino, lo evitano, forse per il suo aspetto, il suo viso sporco e rovinato da grosse chiazze rosse. Pochi minuti dopo scopriamo che questo bambino ha una grave malattia e tra pochi mesi – se non si interviene subito – probabilmente morirà. “Gli altri ragazzi pensano che sia contagioso, per questo nessuno vuole stargli accanto”.

Né gli altri bambini, né lo stato. Padre Firas ci accompagna in visita a questi luoghi, in visita al progetto “Un nome e un futuro”, dedicato ai bambini nati da violenza o che hanno bisogno di un supporto psicologico. Un progetto nato dall’amicizia con il Muftì di Aleppo, che incontriamo nel suo studio, accanto alla cittadella millenaria. “Ciò che ci unisce è la carità”. Riabbraccia padre Firas, un suo vecchio amico. E’ contento di stare con lui e con noi, perché abbiamo scommesso su questa via dell’accoglienza, “la via giusta”.

Tanto che – congedandoci – dice: “Non temete, chi sta dalla parte della verità, vincerà”. Probabilmente non alludeva alla vittoria militare. La sfida è ancora più grande: riguarda la vittoria di un popolo intero, sul suo futuro. E guardando quanto è stato fatto, e quanto si sta facendo per aiutare Aleppo, viene da dargli ragione.

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